Allen Iverson, il maestro del crossover che ha unito il basket alla cultura hip hop

Non voglio essere Jordan, Bird o Isaiah, non voglio essere nessuno di loro. Voglio guardarmi allo specchio e poter dire: ‘Ce l’ho fatta a modo mio’.

Allen Iverson

Sfrontato, controverso, lunatico e problematico. Ma anche elettrizzante, genuino, generoso e devoto. Allen Iverson è stato un mix di energia ribollente, impossibile da contenere o incanalare, pronta a esplodere irradiando qualsiasi cosa attorno. Nel bene e nel male. Iverson è stato la superstar più sui generis in assoluto a cavallo tra gli anni ’90 e 2000: da un lato c’era il passato torbido, il look marcatamente estremo, quel carattere fumantino e impossibile da imbrigliare, dall’altro un talento sconfinato, una generosità d’animo e una purezza di princìpi che si trovano raramente in maniera così straripante in giocatori di quel livello. Iverson avrebbe dato qualsiasi cosa per vincere, ma a una sola condizione: l’avrebbe fatto a modo suo.

Un’icona ibrida, tra sport e cultura hip hop

Sembra che ce l’abbiano con me e con tutti quelli che vestono hip-hop. Ma se metti giacca e cravatta addosso a qualcuno, non significa che sia un brav’uomo. Un assassino in abito resta sempre un assassino.

Allen Iverson

Era impossibile non restare abbagliati da quel ragazzo quando calcava il parquet. Nessuno con quell’altezza e quella struttura fisica avrebbe mai avuto una minima chance nella NBA di quegli anni, ancora dominata dai grandi centri. Eppure, per lunghi tratti, è stato lui a dominare quella stessa Lega. Vuoi per i tatuaggi che dipingevano ogni centimetro di quel fisico quasi scheletrico, vuoi per quell’abbigliamento estroverso e stravagante che lo ricopriva di accessori da capo a piedi tra fascette, gomitiere, guantoni e polsini, vuoi per quei pantaloncini portati larghi e sotto il ginocchio contro tutte le convenzioni dell’epoca, Iverson è stato una figura unica nel suo genere, capace di fondere la cultura sportiva con quella hip-hop afroamericana. Un grandissimo giocatore di basket sì, ma anche un’icona popolare, in grado, nella sua genuinità, di trascendere i confini dello sport.

Il Maestro del crossover

“Blink, and you’ll miss me”

Allen Iverson
Un duello tra Allen Iverson e Michael Jordan durante una partita tra Philadelphia 76ers e Chicago Bulls del 1997.
Un duello tra Allen Iverson e Michael Jordan durante una partita tra Philadelphia 76ers e Chicago Bulls del 1997.

In campo, Iverson era libero di esprimere se stesso, di sfogare la rabbia repressa covata nei lunghi anni di adolescenza nei project, di lasciar parlare il proprio io più vero, altrimenti soffocato da una timidezza sorprendente, dettata da quel desiderio di chiudersi in se stessi che spesso contagia chi, dalla vita, ha già ricevuto una sofferenza eccessiva. Eppure, quello scricciolo di 180 cm per 75 kg era capace di cose straordinarie con la palla in mano.

Dotato di un primo passo fulmineo, una carica energetica quasi infinita e una velocità impressionante di piedi e mani, Iverson è stato, nei suoi anni migliori, l’attaccante 1vs1 più forte della Lega, capace di lasciarsi alle spalle anche superstar come Kobe Bryant e Tracy McGrady, terzetto che faceva impazzire i fan dei primi anni 2000. Era soprannominato “The Answer”, perché aveva una “risposta” a tutto, a qualsiasi tentativo avversario di fermarlo. MVP del 2001, quattro volte capocannoniere della NBA e una media punti di 26.7 in carriera (7° all-time), Iverson ha ripreso e perfezionato il movimento del crossover in palleggio, rendendolo l’arma più utilizzata ed efficace ancora oggi nel basket moderno: tante, tantissime le caviglie degli avversari fatte a pezzi da quei movimenti fulminei, così imprevedibili che era solito dire: “Blink, and you’ll miss me” (“Se sbatti le palpebre, non mi vedi più”). Chiedete pure a Michael Jordan, ubriacato proprio da un suo crossover durante il loro primissimo incontro nell’anno da rookie (1996), un video ancora cercatissimo su YouTube.

Una squadra al suo servizio: l’epopea delle Finals 2001

Senza Larry Brown, non ci sarebbe stato nessun MVP, nessun Allen Iverson.

Allen Iverson

Dal crossover allo step-over, perché l’altra immagine rimasta nella memoria collettiva è quel passo allungato con cui scavalcò Tyronn Lue finito per le terre nel disperato tentativo di marcarlo in un’azione cruciale delle Finals 2001 giocate contro i Los Angeles Lakers. Un gesto contraddittorio ma spontaneo, specchio fedele del suo animo. Quelle Finals furono l’apice della sua carriera, il punto più alto della sua decennale storia di amore martoriato con la città e la squadra di Philadelphia, segnato da un’imprevedibile alternanza di momenti epici e sconfortanti, come quella famosissima intervista in cui, infuriato con i giornalisti che gli facevano notare di aver saltato un allenamento, ripeté la parola “practice” (allenamento) per 22 volte in un minuto.

Quei Sixers del 2001 si arresero 4-1 ai fortissimi e favoritissimi Lakers di Kobe Bryant e Shaquille O’Neal, ma è una serie, e più un generale, un’epopea, segnata dalle mitiche gare-7 contro Milwaukee e la Toronto di Vince Carter, ricordata in maniera vivissima ancora oggi, a vent’anni di distanza. Quella squadra, guidata da Larry Brown, l’unico coach che riuscì a gestire in maniera più o meno ondivaga i suoi istinti, era l’apoteosi del concetto di gruppo e blue-collar per eccellenza: una squadra di lottatori, gregari, difensori, pronti a sollevare lance e scudi quando chiamati a raccolta dal proprio leader e a dargli carta bianca per dipingere crossover fulminanti e primi passi brucianti. Quella poesia che soltanto Iverson sapeva tradurre in versi sul legno del parquet.

scritto da Daniele Fantini