AX Armani Exchange Milano-Valencia Basket 95-80

Martedì 12 gennaio 2021, Mediolanum Forum di Assago (Milano)

Quando ho iniziato ad allenare, perdevo, se non sempre, spesso e volentieri. Dopo un po’, quando ho cominciato invece a vincere spesso e volentieri facendo drizzare qualche antenna in società, ricordo che il presidente mi chiese: “Ma come giocate? Grinta, grinta, grinta… o hai un sistema?”.

Il sistema ce l’avevo. Certo, agli inizi avevo provato ovviamente anche il “grinta, grinta, grinta”, un mantra fin troppo osannato dai meno addetti ai lavori, ma mi ero presto accorto che, sprazzi di partita a parte, non poteva funzionare come base su cui costruire un progetto. E quel sistema, che in maniera altrettanto ovvia forma le fondamenta di qualsiasi squadra professionistica di livello, questa sera, a Milano, si è visto eccome. Perché va bene parlare di intensità e agonismo, ma in Eurolega non bastano le semplici doti caratteriali per vincere partite.

Per strutturazione di base, l’Olimpia si accoppia bene con squadre relativamente leggere nel front-court. E Valencia, causa stop per covid di Bojan Dubljevic, ha mostrato il fianco. Senza presenze particolarmente intimidatorie in area, Milano può giocare la sua pallacanestro su entrambi i lati del campo. La motion offense innescata dai vantaggi costruiti dal palleggio sul perimetro funziona, con annesso movimento di palla e ribaltamento del lato per i tiratori. I numeri lo certificano: 16 triple (record stagionale) con il 60% sfiorato, buone per riavvicinarsi anche allo Zalgiris come squadra più pericolosa dall’arco dell’intera Eurolega. Idem nella metacampo difensiva, dove, con poche preoccupazioni nello sguarnire un’area scarsamente sfruttata dagli avversari, Milano può dare il meglio con quell’impostazione molto aggressiva sulla palla e contenitiva sulle penetrazioni con il lavoro dei lunghi. Il sistema di Messina si è visto eccome, nella sua totale e piena funzionalità.

La palla a due tra Kaleb Tarczewski e Mike Tobey che apre la partita tra AX Armani Exchange Milano e Valencia.

Ma veniamo ai singoli. A partire dalla settimana di Istanbul, Gigi Datome sta vivendo un periodo straordinario. Non so se il merito sia dovuto al fatto di aver riassaporato “l’aria di casa”, ma, finché gioca con questa naturalezza, va bene qualsiasi cosa. Come contro Pesaro, ha dato, in ogni azione, l’impressione di non poter sbagliare mai un tiro. Sempre al posto giusto, sempre in ritmo, sempre focalizzato sul canestro. Ancor prima che potesse mettere il pallone sulle mani, veniva quasi automatico scrivere già “canestro realizzato” a referto. E sarebbe riduttivo limitarsi al solo attacco, perché anche dietro, da 4 tattico, ha retto andando forte anche a rimbalzo.

Malcolm Delaney gli ha dato una grande mano. Già venerdì scorso, a Madrid, è stato, per linguaggio del corpo, il giocatore più inserito nel momento e nella partita. Ed è stato capace di riportare quelle stesse sensazioni anche questa sera, a quattro giorni e un migliaio di chilometri di distanza, e dopo quell’Odissea che ha tenuto la squadra bloccata in Spagna ben oltre il programma. Oggi ha avuto la squadra pienamente in mano, cosa non sempre facile per un giocatore che, in realtà, è molto lontano dall’essere un playmaker puro e che necessita del sostegno di Rodriguez dalla panchina. Stasera i ruoli si sono quasi invertiti, con un’Olimpia più in palla nei momenti con Delaney rispetto a quelli di puro chachismo.

Se l’attacco è per tutti, perché vedere il pallone che entra nel canestro è immediato, la difesa è per pochi. Ma il lavoro oscuro ha la stessa importanza della pioggia di triple che ha lacerato la retina di Valencia. Rischio di essere quasi monotono, ma non citarlo sarebbe un delitto: Kyle Hines ha giocato un’altra partita straordinaria, una delle migliori della stagione per efficacia ed efficienza nella sua ormai classica silenziosità. Seguirlo nei suoi movimenti in mezzo all’area è stato meglio di un clinic speciale del corso allenatori. Sempre presente per ogni aiuto, recupero, cambio, pronto a schermare tutte le linee di penetrazione e a mettere le sue manone sulle linee di passaggio prevedibili. Ha fermato tutto e tutti. Un totem.

Ma credo sia altrettanto corretto spendere qualche parola per lo special-team difensivo in senso più allargato. Ho visto un Jeff Brooks concentrato e inserito nel secondo periodo, utilissimo nel giocare anche da punta in qualche sprazzo di zona 3-2, così come un Michael Roll sempre più calato nel ruolo di specialista. Ormai è quasi una garanzia: quando il Baffo entra, la difesa si alza di colpi. Sempre.

Una rimessa di Klemen Prepelic durante la partita tra AX Armani Exchange Milano e Valencia.

In tutto questo, con altrettanta sincerità, devo ammettere che Valencia mi ha deluso. Anche senza Dubljevic, mi aspettavo una partita più combattuta, sofferta, come all’andata. L’intero reparto esterni è stato osceno. Sam Van Rossom in primis, a conferma che quell’exploit valso la vittoria in Spagna è stato più frutto di una casualità irripetibile che della reale bontà del giocatore. L’unico che salvo è Klemen Prepelic, fortunatamente scongelato soltanto nel quarto periodo, a risultato quasi acquisito, ma comunque capace, quasi in solitaria, di riaccendere la scintilla di una pericolosissima rimonta. Tiratore mortifero da sempre, i progressi fatti nel ball-handling e nella lettura delle situazioni dal palleggio sono veramente notevoli.

Anche Derrick Williams ha costeggiato a lungo la partita dopo essersi sfogato con un inizio promettente. Da quando ha lasciato il Bayern Monaco è involuto, incapace di inserirsi in un contesto più organizzato e corale, dove non gli viene chiesto di fungere da prima, seconda e terza opzione offensiva. Sostanzialmente, lo stesso problema che gli ha impedito di avere una carriera NBA adeguata al talento e alle qualità fisiche. Certo, resta sempre un giocatore con una spettacolarità fuori dal comune, ma concretezza, continuità ed efficacia tendono a restare su un piano differente.

Il migliore è stato forse Nikola Kalinic, giocatore all-around per eccellenza anche a livello europeo. Ma, proprio come Hines, Kalinic è sempre stato un leader silenzioso, maestro del lavoro oscuro, dei dettagli e di quelle piccole cose che permettono il salto di qualità a un sistema già ben funzionale. Se questo sistema comune manca alla base, anche la sua partita, per quanto solidissima, tenderà, suo malgrado, a disperdersi nell’ombra.

scritto da Daniele Fantini