Becky Hammon head-coach è lo specchio della grandezza di Gregg Popovich

Summer League di Las Vegas 2015, San Antonio Spurs-Brooklyn Nets. Durante un time-out a una manciata di secondi dalla sirena, Becky Hammon disegna una splendida azione con doppie uscite da rimessa laterale per segnare il canestro della vittoria. In quell’istante, di fronte all’efficacia e alla tranquillità con cui gestisce la situazione, la sensazione che quella donna abbia realmente qualcosa di speciale si espande ben oltre Gregg Popovich e la sua ristretta cerchia di fedelissimi.

Becky Hammon head-coach? “Business as usual” per il modello Spurs

Pop, in reatà, lo aveva già capito da un pezzo, da quando, per un’intera annata, Hammon aveva seguito i suoi allenamenti da “aggregata” allo staff prima di esservi inclusa in pianta stabile nel 2014. L’aveva chiamata lo stesso coach degli Spurs, quando un grave infortunio al crociato l’aveva virtualmente costretta a chiudere una carriera da giocatrice costellata da 6 convocazioni all’All Star Game della WNBA. Nella sfortuna, una fortunatissima coincidenza da sliding-doors. Hammon ha avuto la chance di trovarsi non soltanto al fianco di uno degli allenatori più leggendari della storia NBA, ma anche di entrare in un ambiente che si è sempre distinto dal resto della Lega per etica e qualità del lavoro e apertura al nuovo, il celebre “modello Spurs” di eccellenza che tante squadre hanno inseguito o imitato per gran parte dello scorso decennio.

Hammon avrebbe poi vinto quella Summer League, regolando in finale i Phoenix Suns di un indiavolato Mike James (sì, proprio quel Mike James), diventando la prima donna a mettere argenteria in bacheca nel ruolo di capo-allenatrice a livello NBA. In quello stesso ruolo si è ritrovata nell’ultimo giorno del 2020, anche se per poco più di mezza partita, subentrando a un Popovich espulso per proteste in una serata poi sfociata in una sconfitta contro i Los Angeles Lakers. In quei 27’56” effettivi, Hammon “ha fatto la storia” diventando la prima donna ad allenare una squadra NBA in una partita ufficiale e abbattendo una barriera rimasta intatta per settant’anni. Ma, dietro i necessari quanto ovvi titoli di giornale, si nasconde la realtà di un fatto squisitamente “normale” all’interno dell’ambiente Spurs. “Business as usual”, non a caso, il commento di Popovich.

Gregg Popovich, il più grande mentore della storia NBA

Già, cosa c’è di così strano nel percorso di un allenatore che, in 24 anni di carriera senza interruzioni ai San Antonio Spurs, si è distinto, oltre che per i cinque titoli vinti e l’apertura di una delle più grandi dinastie dello sport americano moderno assieme ai New England Patriots di Tom Brady e Bill Belichick, anche e soprattutto per essere stato il più grande mentore e formatore della storia? Popovich non ha costruito quel già citato “modello Spurs” da solo. Ne è stato il volto e punto di riferimento, certo, ma il vero fattore-chiave che ha sorretto il suo intramontabile sistema vincente è stata soprattutto la sua capacità unica di scegliere assistenti e giocatori con una mentalità e una visione distinta dal resto del gruppo. Tony Parker, Manu Ginobili e Tim Duncan erano giocatori diversiDi altro spessore e livello mentale, prima che tecnico, rispetto alla concorrenza. E, guarda caso, un franco-belga, un argentino e un originario delle Isole Vergini. Nessun americano in senso stretto. A sostegno del fatto che la diversità di approccio possa essere un fattore chiave, e vincente, per competere anche ad altissimo livello. Stesso discorso, anche se con sfumature diverse, per Kawhi Leonard, l’uomo su cui ha costruito il suo ultimo titolo.

La schiera di assistenti allenatori e giocatori passati per gli Spurs di Popovich e poi diventati head-coach è chilometrica. Il suo “coaching-tree”, per dirla all’americana, ha ormai preso le sembianze di una quercia secolare, a dimostrazione del fatto che l’intera NBA abbia cercato di rubargli un po’ di quella infinita sapienza strappandogli, uno dopo l’altro, pezzetti della sua organizzazione, puntualmente ricostruita, anno dopo anno, con menti ugualmente brillanti e raffinate. Tra gli ex-assistenti che hanno poi occupato una panchina da head-coach provando a portare altrove quella “Spurs culture” ci sono Brett Brown, Mike Budenholzer, James Borrego, Jim Boylen, Taylor Jenkins, Quin Snyder, Mike Brown, Jacque Vaughn ed Earl Watson, mentre la lista dei giocatori annovera Steve Kerr, Monty Williams, Avery Johnson, Vinny Del Negro Doc Rivers, quest’ultimo agli Spurs quando Pop era ancora assistente. Ritrovare, in un prossimo futuro, anche Becky Hammon tra questi nomi non sarebbe poi così sorprendente. “Business as usual”.

scritto da Daniele Fantini