Brandon Davies, i primi anni oscuri del “Process” di Philadelphia

Brandon Davies ha una voce bassa e profonda, unita a un modo di parlare calmo e compassato. La dizione è perfetta, segno che i quattro anni trascorsi al college di BYU (Brigham Young University, il college mormone di Provo, nello Stato dello Utah) lo hanno formato anche e soprattutto come persona.

Dopo due anni di trasformazione a Kaunas, dove coach Sarunas Jasikevicius ne ha estratto il meglio, è alla sua prima esperienza in un top-club europeo, con la canotta del Barcellona, traguardo di un processo cominciato nel 2013, di pari passo con il più famoso “The Process” dei Philadelphia 76ers. Con Phila, sua città natale, ha firmato nell’ottobre del 2013 dopo aver disputato, da undrafted, la Summer League di Las Vegas con i Los Angeles Clippers, piccolo pezzo di quell’ingranaggio destinato a trasformare il volto della franchigia sotto Sam Hinkie, il gm più visionario di questo secolo.

Con lui, abbiamo ricordato i momenti di quell’esperienza all’interno di una squadra costruita dalla dirigenza “per perdere”, nella più grande manovra di tanking vista finora nel mondo della pallacanestro: quell’anno, i Sixers chiusero con un record di 19-61, pareggiando la striscia-record di 26 sconfitte consecutive già fatta registrare nel 2010-11 dai Cleveland Cavaliers.

Ogni giorno era come un provino

“Per il tipo di contratto che avevo firmato, dovevo lottare ogni giorno per tenermi il posto in squadra. Essenzialmente, ogni giorno era come un provino, un try-out. Ho imparato l’importanza del lavoro duro e della necessità degli straordinari, ma anche come gestire il tempo in maniera saggia. Coach Brett Brown, che, non a caso, è ancora lì, è stata una figura molto importante per la mia carriera e il mio sviluppo come giocatore. Mi ha aiutato a diventare un professionista migliore di quanto fossi prima. Oggi è impressionante vedere come si siano sviluppati i piani nel corso degli anni e il livello che la squadra ha raggiunto ora: sarò sempre un tifoso dei Philadelphia 76ers”.

Tanking? Non per i giocatori: noi giochiamo sempre per vincere

“Dal punto di vista dei giocatori e dell’allenatore, il concetto di “tanking” non esiste. Nessuno di noi andava in campo per perdere le partite. Giocavamo ogni sera per vincere. E anche coach Brown provava a vincere con le carte che gli erano state date. Abbiamo vissuto strisce perdenti molto lunghe, ma in quei momenti nessuno in spogliatoio era felice delle sconfitte. Anzi, in realtà le sconfitte ci spingevano a lavorare sempre di più per cercare di migliorare, perché il motivo delle sconfitte è non essere riusciti a fare le cose nel modo giusto in campo”.

Dal sommerso a pedina di scambio per asset futuri

“Certo, sapevamo quali fossero in realtà gli obiettivi della dirigenza, cioè cercare di ricostruire la squadra collezionando asset futuri. Quella Philadelphia cercava giocatori nel sommerso e provava a svilupparli e trasformali in qualcosa da cui poter ricavare in cambio qualcos’altro di importante nel futuro, che fossero scelte al draft o altri giocatori. Per me è stata una grandissima opportunità per giocare in NBA e diventare un giocatore migliore di quanto fossi prima. Facendo parte del “Process”, sono migliorato cercando di dimostrare il mio valore, per poi essere ceduto in futuro in cambio di assets. E così è successo. Sono stato ceduto ai Brooklyn Nets per un paio di seconde scelte, ma lì, in quella squadra, purtroppo non era il momento giusto per me. Riuscire a ricavarsi una nicchia in NBA è spesso una questione di timing”.

scritto da Daniele Fantini