Charles Barkley, l’anomalia diventata leggenda

Barkley è come Magic e Bird. Non hanno un ruolo definito, ma possono giocare in qualsiasi posizione. Più semplicemente, giocano a basket. Nessuno fa le stesse cose di Barkley. è un rimbalzista dominante, un grandissimo difensore, un tiratore da tre, un abile palleggiatore, un creatore di gioco.

Bill Walton

Charles Barkley è stato la più grande anomalia della NBA a cavallo tra gli anni ’80 e ’90. Prendendo in prestito un termine molto in voga in oggi, lo potremmo definire come uno dei più grandi “unicorni” dell’epoca, per quel mix di caratteristiche uniche che gli hanno permesso di entrare nel ristrettissimo gruppo di giocatori ad aver totalizzato più di 20.000 punti, 10.000 rimbalzi e 4.000 assist in carriera, un’élite che comprende soltanto altri tre grandissimi del gioco: Wilt Chamberlain, Karl Malone e Kareem Abdul-Jabbar. Il gotha dei big-men della storia della NBA.

Nato come rimbalzista, esploso come giocatore totale

Mi viene da ridere quando mi chiedono quale fosse la mia tecnica per andare a rimbalzo. Sì, ne avevo una, ed era questa: prendi quella c***o di palla!

Charles Barkley

Quando sbarcò in NBA, scelto con la chiamata numero 5 dai Philadelphia 76ers nel draft del 1984 (due slot dopo Michael Jordan), in molti intravedevano per lui una carriera da giocatore di ruolo come rimbalzista. Barkley tenne fede a questa caratteristica raccogliendo rimbalzi in doppia cifra in 15 delle 16 stagioni disputate, con una media di 11.7 in carriera e un massimo di 14.6 nella sua terza annata, quando fu leader dell’intera NBA. La sua famelica propensione ai rimbalzi unita al fisico “arrotondato” gli valsero inizialmente il soprannome di “Round Mound of Rebound”, ma, in breve, emerse tutto il resto del suo sconfinato repertorio: le sue giocate incutevano timore e rispetto, e Barkley fu così ribattezzato “Sir Charles”.

Le sue misure fisiche sono sempre state fluttuanti, sia per l’altezza (si diceva che fosse alto 196 cm, ma anche 193 senza scarpe) che, soprattutto per il peso, una caratteristica di cui tendeva spesso a perdere il controllo, oscillando tra i 113 e i 129 kg nei momenti di forma peggiore. Eppure, come scrisse uno scout di quella che fu poi la sua università (Auburn) vedendolo giocare una partita di high-school, “quel ragazzo cicciottello giocava a basket con la leggerezza del vento”. Ala grande undersized ma adattabile anche da ala piccola e, in maniera più rara, centro, Barkley possedeva un mix di rapidità, velocità, esplosività, elasticità e forza bruta impossibili per un giocatore con quella conformazione fisica, caratteristiche gli permettevano di essere un incubo da mismatch.

Charles Barkley vola a schiacciare a canestro durante una partita disputata con la maglia dei Philadelphia 76ers.

Barkley batteva con la stessa efficacia quasiasi tipo di difensore provasse a fermarlo: superava gli avversari più leggeri con peso, muscoli e forza bruta, e quelli più fisici e pesanti sfruttando la sua rapidità unita a una tecnica sopraffina. Una volta preso il centro-area, l’appuntamento col ferro era questione di qualche decimo di secondo, tanto erano spiccate le sue doti di elasticità, esplosività e capacità di elevazione che lo hanno reso un maestro delle schiacciate di potenza a due mani. La stessa foga offensiva si scatenava anche sotto il proprio tabellone: sapeva utilizzare il proprio fisico in maniera sublime nel tagliafuori per raccogliere valanghe di rimbalzi, emergere dal nulla per rifilare stoppate umilianti a giocatori molto più alti di lui e leggere perfettamente le azioni avversarie per rubare palloni in grande quantità.

Ma Barkley era molto più di tutto questo e delle innumerevoli inchiodate e stoppate che potete ritrovare ancora nelle raccolte di highlights. Barkley è stato un precursore del ruolo di ala grande della pallacanestro moderna, un giocatore in grado di condurre un contropiede da rimbalzo catturato, di attaccare la difesa dal palleggio, di tirare dal perimetro con grande efficacia (soprattutto dalla media distanza) e di annebbiare i difensori con un repertorio offensivo totale, che spaziava da un utilizzo sapiente dei movimenti in virata a morbidi esecuzioni in fade-away.

Il grande sogno mai raggiunto: una sola Finale e zero anelli

Sono un cane rabbioso che pensa soltanto a vincere.

Charles Barkley

Nonostante un fuoco interiore dirompente, Barkley rientra nel novero delle leggende NBA a non aver mai accarezzato la gioia di un anello. Si avvicinò al grande traguardo in una sola occasione, quando, mandato a Phoenix dopo 8 anni turbolenti a Philadelphia, giocò la sua miglior stagione della carriera. Con medie di 25.6 punti, 12.2 rimbalzi e 5.1 assist, Barkley vinse il premio di MVP della regular-season, trascinò i Suns alla vetta della Western Conference, ma si schiantò contro i Chicago Bulls di Michael Jordan in finale, perdendo 4-2.

Charles Barkley e Michael Jordan durante le Finals NBA del 1993 tra Phoenix Suns e Chicago Bulls.

Fu quello il più grande rimpianto della carriera, perché non ebbe mai più un’altra occasione simile: infortuni acciacchi iniziarono a minarne l’integrità fisica mentre gli Houston Rockets emergevano come nuova realtà dominante a Ovest. Phoenix venne eliminata per due anni consecutivi in Finale di Conference proprio dai Rockets e quando, nel 1996, Barkley scelse di firmare con i grandi nemici unendosi a Clyde Drexler e Hakeem Olajuwon, il ciclo era ormai giunto alla fine. Chiuse la carriera disputando quattro stagioni in Texas tormentate da infortuni culminati con la rottura del tendine del quadricipite femorale in una trasferta – ironia del caso – a Philadelphia. Non volendo ritirarsi con quell’immagine, rientrò in tempo per disputare l’ultima gara di regular-season contro i Vancouver Grizzlies, e segnò il suo ultimo canestro sugli sviluppi di un rimbalzo offensivo, come aveva fatto migliaia di volte in carriera.

Controverso dentro e fuori dal campo: risse, sputi e il mantra “Non sono un modello”

Non sono un modello. Il fatto che sappia schiacciare un pallone in un canestro non significa che sia in grado di crescere i vostri figli. I genitori, e non gli sportivi, dovrebbero essere modelli per i ragazzi.

Charles Barkley.

Barkley era tanto estremo nel gioco quanto nel temperamento. La sua personalità bipolare, che univa momenti istrionici di grande simpatia ad altri di pura rabbia quasi incontrollata, e la sua parlata genuina e schietta l’hanno reso uno dei giocatori più apprezzati da tifosi e appassionati. Barkley sapeva scherzare con il pubblico, ma era ben conscio che molti dei suoi comportamenti non fossero da imitare: il carattere fumatino lo portava spesso a eccedere dentro e fuori dal campo, con discussioni, risse e scazzottate rimaste nella storia, come quelle che coinvolsero Bill Laimbeer e Shaquille O’Neal. Per questo motivo, ha sempre rifiutato l’etichetta di “modello”, sconsigliando i ragazzini di vedere nei grandi sportivi dei riferimenti comportamentali da imitare.

Charles Barkley protesta con l’arbitro Joe Crawford durante una partita di playoff tra Houston Rockets e Seattle Supersonics.

Il suo incidente più famoso coinvolse proprio una giovane tifosa, colpita da un suo sputo tra le prime file diretto invece a uno spettatore che lo stava prendendo a male parole. Barkley, che ricorda ancora quella scena come il momento più deplorevole della sua carriera, riuscì poi a fare amicizia con la ragazza e la sua famiglia, invitandola ad assistere a molte altre partite in parterre e conquistandola come soltanto lui sapeva fare.

Il Dream Team del 1992 e l’oro olimpico

Non so nulla dell’Angola. Ma so che l’Angola è nei guai.

Charles Barkley

Con questa frase passata alla storia, Charles Barkley aprì l’avventura del Dream Team alle Olimpiadi di Barcellona 1992, le prime in cui gli States schierarono una squadra interamente composta da giocatori NBA dopo il bronzo di Seoul 1988. Nel pieno della sua figura contraddittoria, Barkley cominciò il torneo rifilando una gomitata a un giocatore angolano, Herlander Coimbra, in una partita vinta di 68 punti, ma proseguì giocando su livelli altissimi e chiudendo come miglior realizzatore della squadra (16.3 punti di media) davanti a Karl Malone e Chris Mullin. Il suo apporto nella finale vinta contro la Jugoslavia fu determinante: entrando dalla panchina, ruppe il miglior momento degli avversari e contribuì in maniera pesante a costruire il break risultato poi decisivo nella seconda metà del primo tempo. La convocazione nel Dream Team e la medaglia olimpica furono un enorme stimolo per il prosieguo della carriera: leader di una squadra invischiata nelle secche di scarsi risultati (i Philadelphia 76ers nel periodo di ricostruzione dopo l’anello del 1983), Barkley stava cadendo in depressione: “In quel periodo, pensavo di fare schifo anche io”, avrebbe poi dichiarato.

scritto da Daniele Fantini