De’Longhi Treviso-AX Armani Exchange Milano 77-82

Domenica 24 gennaio 2021

Vincere e gestire non sono due concetti facili da sposare tra loro. Messina ci è riuscito nelle ultime due uscite, a Cremona e a Treviso, rischiando, certo, soprattutto nella prima partita, ma portando comunque a casa il risultato. Spesso sento dire che Milano, con la lunghezza del roster a disposizione, dovrebbe affrontare il campionato di Serie A soltanto con le seconde linee, dando trenta minuti a partita agli italiani. Ma è un concetto, o una credenza, molto banale e semplicistica. E chiunque abbia mai allenato, anche a basso livello, potrà prenderne facilmente le distanze.

Ogni squadra ha un proprio sistema, costruito sul core di base dei giocatori. Il core, ovviamente, non comprende l’intero roster, che va poi completato con gregari ed elementi di contorno. La squadra, con il suo sistema, funziona finché il core viene tenuto più o meno intatto. È impossibile avere lo stesso risultato allargando il sistema a 15 giocatori. Non è pensabile, né fattibile. Così come non è pensabile che le seconde linee, assieme, possano esprimere un sistema vincente. Non perché siano di qualità inferiore (sono tutti professionisti e si possono costruire sistemi validi con tutti), ma semplicemente perché non è il compito per cui sono state scelte o chiamate. Certi giocatori sono in una squadra per dare “X” in un certo momento della partita. E quella “X” è traducibile in un minutaggio relativamente ristretto, non in protagonismo. Vincere dando 10-15 minuti agli elementi di rotazione è, per me, una gestione ottimale della partita e della panchina. È normale che il grosso del lavoro debba ricadere ancora e sempre sulle spalle dei titolari, altrimenti non avremmo distinzioni all’interno del gruppo. Ma una dozzina di minuti dalla panchina sono un numero ottimale. Non trenta.

Un roster lungo non è necessariamente un vantaggio, perché sfalsa l’amalgama e la chimica del gruppo. Milano gioca in Eurolega con un certo tipo di rotazioni, e in campionato con uno completamente differente e vario a seconda del turnover. Tradotto, Messina deve gestire due squadre in una. Mica facile.

Un sistema coordinato e funzionale si può costruire con otto uomini, avendo un elemento di rotazione per reparto (esterni, ali, centri). Lo dimostrano molte squadre del nostro campionato (e non), organizzate con un roster relativamente scarno, e dalle rotazioni classiche da playoff, generalmente su quella lunghezza d’onda. Otto uomini forniscono la chimica e le sicurezze necessarie. D’altronde, ne abbiamo avuto un esempio lampante pochi giorni fa, quando Milano ha giocato forse la sua miglior partita della stagione in Eurolega demolendo il Bayern Monaco partendo proprio da quella stessa situazione. Aggiungerne uno o due è già complicato, e chi ha allenato sa quanto sia difficile imbastire una rotazione a dieci. Figuarsi a 12, come in Serie A.

Allungare le rotazioni significa andare a toccare equilibri sottili. Modificare quintetti che, in quel momento, stavano esprimendo un ottimo gioco. Urtare la sensibilità e l’emotività dei giocatori, che sono prima di tutto esseri umani. Perché mi toglie? Perché entro adesso? Perché mi fa giocare così poco? Perché lui esce e io no? Perché lui entra e io no? Sono domande che i giocatori si fanno continuamente durante una partita. Il tutto senza avere la minima certezza di ricavare un vantaggio dall’aggiungere uno o più elementi in rotazione. È un dilemma complicato da affrontare. La psicologia sportiva è un elemento di difficile interpretazione. Perché mutevole, a seconda del flow e dei momenti della partita, e perché doppia. Non basta considerare quella della propria squadra, ma è sempre necessario confrontarla con quella dell’avversario.

Porto un mio piccolo esempio personale che, pur parlando di mondo minors, per certi versi è rapportabile a quello di Milano a livello gestionale ed emotivo. Con la differenza, molto chiara e netta, che Ettore Messina è un professionista pagato per vincere partite, non per “far giocare i ragazzi”. Avevo un roster lunghissimo (quell’anno schierai in tutto 27 giocatori) con un core molto forte, capace di dominare il campionato di Prima Divisione FIP, che consideravamo come la nostra Eurolega. Giocavano i migliori. Punto. E vincevamo. Contemporaneamente, giocavamo anche un campionato UISP, per dare spazio alle seconde e terze linee. Vincevamo anche lì, certo, ma perché portavo sempre un nucleo di 6-7-8 elementi di qualità su cui focalizzare la partita. Avrei potuto agire diversamente, dando spazio soltanto alla panchina? Sì, ma a che scopo? Non avevo certezze. E perdere avrebbe soltanto aggravato le cose, perché i ragazzi si sarebbero sentiti ancora più scarsi.

L’errore però arrivò, nel momento peggiore. Final Four UISP. Per “festeggiare” l’evento, decisi di portare 15 uomini in panchina, il massimo come da regolamento UISP, differente da quello FIP, così da poter regalare a tutti un assaggio di parquet nelle finali. A metà del secondo periodo eravamo a +13, in netto controllo e con il pilota automatico già innestato anche con una rotazione a dieci. Decisi di cogliere l’occasione per dare minuti di partita vera anche al fondo della mia panchina, sicuro di poter controllare la situazione senza patemi. Mi sbagliavo di grosso. Perché in quella manciata di minuti in cui le nostre terze linee furono sguinzagliate in campo, tutte insieme contemporaneamente, arrivò un contro-parziale durissimo. Dal +13 in controllo eravamo finiti pari all’intervallo. Ma la partita non era cambiata soltanto nel tabellone. Era cambiata anche nell’anima, a livello mentale. Noi eravamo depressi, arrabbiati e frustrati per aver gettato un grosso vantaggio al vento, loro erano galvanizzati dall’aver rimesso in piedi una partita che pensavano già di aver perso da tempo. E il secondo tempo fu l’esatto specchio del quadro mentale: noi nervosissimi, loro carichi e leggeri. Non riuscimmo più a staccarceli da dosso, ci trascinarono ai supplementari e perdemmo in volata, amaramente.

Quando sento dire che Milano dovrebbe giocare la Serie A “con gli altri” ripenso sempre a quel campionato e a quella partita. E sono sempre più d’accordo con quello che fa Ettore Messina.

scritto da Daniele Fantini