FC Barcellona-AX Armani Exchange Milano 87-71

Venerdì 11 dicembre 2020

La sconfitta di Milano a Barcellona può sorprendere per il modo in cui è arrivata, con quell’inimmaginabile accensione di un parzialone di 25-2 proprio nel momento di maggior inerzia biancorossa. Ma, in reatà, stupisce molto meno se vista o presa come sconfitta in sé. Come abbiamo già detto ieri, quel maxi-break costruito negli ultimi 6 minuti di partita non è frutto del caso o di una congiunzione astrale particolarmente favorevole che ha schermato il canestro per l’Olimpia e dilatato a dismisura quello blaugrana. È, molto più semplicemente, la differenza che intercorre tra una squadra che ha cominciato quest’anno il processo di crescita per provare a entrare nel salotto nobile d’Europa e un’altra che, invece, quel salotto lo occupa ormai stabilmente da un triennio e che, in questi mesi, studia per sedersi definitivamente a capotavola dopo la chance mancata nella scorsa stagione. Se tracciassimo un arco temporale, potremmo dire che, per storia e vissuto, il Barcellona è un paio d’anni in anticipo rispetto a Milano.

Ricalcando un’espressione tanto cara al basket d’oltreoceano, Barcellona ha aperto il proprio “The Process” nell’ormai lontano febbraio 2017, quando Svetislav Pesic raccolse una situazione disastrosa dalle mani di Sito Alonso. La squadra imbarcava acqua ovunque (aveva perso anche entrambe le partite contro la Milano di Pianigiani) e languiva nei bassifondi della classifica, una zona inconcepibile per un club di quel blasone e abituato a comandare la pallacanestro europea per buona parte degli anni 2000. Pesic ricalibrò la situazione chiudendo l’ultimo spezzone di stagione con un onesto 4-4 rispetto all’orrido 7-15 ereditato dal suo precedecessore e, nell’estate successiva (2018), poté gettare le basi per ricostruire una squadra degna di rappresentare la meravigliosa terra di basket catalana. Ecco, riprendendo quell’esempio precedente, in questo momento Milano si trova esattamente in questo punto. Ma ha la fortuna di poter seguire un modello, quello blaugrana appunto, rivelatosi perfettamente funzionale.

Mentalità e difesa: come creare un gruppo vincente

Quell’anno, Barcellona riportò il proprio record in attivo (18-12) dopo due anni disastrosi e un’eliminazione bruciante ai playoff contro la meteora Lokomotiv Kuban nell’ultima stagione pre-girone unico, cadendo contro l’Anadolu Efes in gara-5 nella serie playoff più spettacolare di quel torneo. Persa una leggenda insostituibile come Juan Carlos Navarro, Pesic cominciò un’operazione di ristrutturazione del roster funzionale, prima che a livello di grandi nomi, aggiungendo Kyle Kuric come tiratore specialista e, soprattutto, costruendo un’asse difensivo di altissimo livello sulla coppia Adam Hanga-Chris Singleton. E quella fu la svolta. Pesic rese quel Barcellona la seconda miglior difesa del torneo (76.9 punti subiti in media partita, appena sotto l’inarrivabile Fenerbahçe di Zeljko Obradovic, primo con 75.6, mentre l’Olimpia di Pianigiani era penultima con 87.1) e da lì, con ritmi bassi e fisicità, rivoluzionò l’anima e il gioco della squadra.

Cominciate ora a intravedere qualche somiglianza con quanto fatto da Ettore Messina negli ultimi mesi a Milano? Gli stessi principi di solidità difensiva, la stessa volontà di gestire un roster fisico, unito e intenso prima che spettacolare, lo stesso asse portante eretto su ala-centro con Shavon Shields e Kyle Hines. Ecco, come detto, l’Olimpia si trova in questo punto, lì dov’era Barcellona due anni fa. La ricetta per crescere, d’altronde, è quella. Si può variare qualche ingrediente, ma non snaturare il suo processo.

Andare oltre: la ricerca della qualità assoluta

Quei progressi capaci di portare il Barcellona ai playoff (obiettivo dichiarato dell’Olimpia attuale) e a giocarsi una mitica serie all’ultimo sangue contro la squadra poi arrivata in finale, quell’Anadolu Efes che ha a sua volta cominciato così la crescita spaziale che lo ha portato al 24-4 dello scorso anno, hanno poi permesso al Barcellona di aggredire il mercato estivo con una forza trainante e un progetto tra i più allettanti d’Europa. Certo, la capacità economica di uno dei club più forti del mondo aiuta, ma non basta, da sola, a spiegare la straordinaria campagna acquisti che ha portato in canotta blaugrana in un intero quintetto capace di vincere, da solo, l’Eurolega (Malcolm Delaney, Cory Higgins, Alex Abrines, Nikola Mirotic e Brandon Davies). Alla base di tutto c’era un progetto, una crescita certificata e un coach in grado di instillare un certo tipo di mentalità: dura, sicuramente, ma vincente.

Eppure, anche quello step non è bastato, a riprova della tremenda difficoltà nell’emergere in una Lega così ricca di talento. In estate, il Barcellona è dovuto andare oltre, tagliando la testa – a malincuore – ai suoi due generali in campo, quell’asse coach-playmaker che, ricalcando le parole di Dan Peterson, azzeccatissime, sono l’una l’estensione dell’altra sul campo. Perché annotata l’impossibilità di reggere il ritmo folle dell’Efes e archiviata la cocente delusione per la sconfitta nella finale di campionato ACB contro Baskonia, era chiaro che a quel gruppo straordinario servivano menti ancora più lungimiranti. E così, sono arrivati Nick Calathes, il playmaker ragionatore dal cervello più fine d’Europa, e Sarunas Jasikevicius, che porta quegli stessi concetti di Pesic a un livello ancora più rovente perché infiammati da una carica carismatica ereditata dal suo recente passato da leggenda del parquet e da una emotiva legata alla giovane età e alla fame atavica di vittorie che il suo predecessore non poteva pareggiare. Continuando a seguire queste stesse tappe senza errori, tra due anni, ma soltanto allora, Milano potrà occupare quel posto ora tenuto saldamente in mano al Barcellona.

scritto da Daniele Fantini