Final Eight Coppa Italia 2020 • Day 4, finale • Umana Reyer Venezia-Happy Casa Brindisi 83-77

Pesaro, 16 febbraio 2020

Al quarto e ultimo giorno di Coppa Italia sono riuscito, finalmente, a fare un giretto pomeridiano per Pesaro. C’ero già stato qualche anno fa, nel 2012, in occasione dell’All Star Game, e non mi era sembrata indimenticabile. E questo nuovo tour conferma i miei ricordi. La Rocca Costanza degli Sforza, la Palla di Arnaldo Pomodoro, la camminata sul lungomare, ma non molto altro. La nota turistica positiva è stato invece il bis alla piadineria “Da Terry”, con porchetta e cipolla alla piastra: come si suol dire, “tradizione, distinzione”.

Dopo aver esaurito, ancora una volta, l’incipit turistico, passiamo a far parlare il campo. Atmosfera splendida, con la Vitrifrigo Arena praticamente esaurita, partita avvincente e perfetta chiusura per le Final Eight di Coppa Italia che ho meglio vissuto e più apprezzato in carriera grazie a tutto il team di Eurosport. Vi lascio riportando l’ultimo focus (scritto proprio per il sito stesso di Eurosport) a esaltazione dello splendido torneo giocato dalla Reyer Venezia, il mio pezzo (credo) meglio riuscito e più ispirato della quattro-giorni pesarese.

Daye l’artista, Watt il tattico: come Venezia ha ritrovato se stessa partendo dai suoi leader

Austin Daye ha talmente tanto talento da poter giocare in tutti i ruoli. Ma ha cominciato a fare la vera differenza quando ha capito che deve mettere questo talento a disposizione del gruppo – Walter De Raffaele, coach Umana Reyer Venezia.

A prima vista sembrano parole ovvie. Anzi, una trasformazione talmente evidente che parlarne è perfino superfluo. Ma se ci estraniamo dall’attualità dei fatti calandoci invece nella mente di un giocatore figlio d’arte, 15esima scelta NBA e con 6 stagioni oltreoceano in archivio, il discorso tende a complicarsi parecchio. Perché trasformare una potenziale stellina NBA (suo malgrado mai sbocciata, ma era stato individuato come “erede” di Tayshaun Prince nella Detroit in ricostruzione dopo i mancati assalti all’anello degli anni precedenti) in un giocatore di sistema, è stata una delle più grandi imprese di coach De Raffaele sulla panchina della Reyer Venezia. Ancor più dei tre titoli vinti con lui a roster (Europe Cup 2018, scudetto 2019, Coppa Italia 2020, uno per annata), perché per raggiungere questi stessi risultati è stato prima necessario rendere Daye funzionale al gruppo.

Austin Daye, un talento perfettamente incastrato nel sistema

Sul talento non si discute. Con quel fisico longilineo e quel bagaglio tecnico che gli permette di essere efficace sia dal palleggio che nel tiro, anche e soprattutto nell’ormai dimenticata terra di mezzo del midrange, Daye è il prototipo perfetto del tweener della pallacanestro moderna. Può giocare da ala piccola, ala grande, aiutare a rimbalzo, facilitare i compagni con una visione di gioco di livello superiore, ed essere anche un’arma impropria in difesa grazie a quelle sue braccia lunghissime e un’intelligenza tattica da vero giocatore NBA. Austin Daye ha scelto di abbandonare la via della specializzazione (solo attaccante) e del protagonismo (quando vinse il titolo di capocannoniere con Pesaro, alla sua prima esperienza italiana) per mettere l’intero repertorio a disposizione della squadra. Non facile. Perché un assist non si nota sempre. Un rimbalzo ancor meno. Un aiuto difensivo quasi mai. È un cambio di mentalità totale. Eppure, per quanto strano, è ciò che ha reso Daye e la sua Reyer ancora più efficaci.

Saper aspettare il proprio momento è una prerogativa dei grandi campioni tanto quanto la capacità di azzannare la partita nell’istante decisivo. Non a caso, i palloni che contano passano sempre per le sue mani. Il canestro della vittoria in overtime sulla Virtus, tanto bello quanto difficile, così come la tripla della staffa in finale con Brindisi, ancor più complessa a livello mentale perché arrivata dopo due altri tiri aperti comodi consecutivi ma sparati sul ferro. Ma quello segnato è il tiro del campione, quello che porta il marchio dell’artista, colui che riesce a estrarre un capolavoro da una situazione in cui gli altri avrebbero probabilmente fallito. Il marchio di Austin Daye, giusto MVP della Coppa Italia.

Mitchell Watt, l’àncora del capolavoro tattico difensivo della Reyer

Ma quel guizzo d’autore che spicca sulla complessità del sistema, non sarebbe bastato (o arrivato) se non ci fosse stato un cardine alla base del sistema stesso. Il co-MVP, o meglio, l’MVP romantico, quello che ci sarebbe piaciuto assegnare proprio perché costruito e guadagnato su quegli intangibles sparsi che fanno la vera forza di Venezia, non può essere altri che Mitchell Watt. A Pesaro, la Reyer ha giocato tre splendide partite difensive, smontando, uno per uno, tre sistemi totalmente diversi tra Virtus Bologna, Milano e Brindisi. Non l’ha fatto con l’atletismo e l’aggressività sfrenata sul pallone (vedi Brindisi nella cavalcata travolgente sulla Fortitudo in semifinale), ma con un’organizzazione collettiva e tattica al limite della perfezione. Nella propria metacampo la Reyer si muove come fosse un corpo unico, con una coordinazione perfetta tra il difensore sulla palla, gli aiuti e le rotazioni sul lato debole. Venezia difende di fisico, tattica e posizione, occupando in maniera perfetta il campo grazie a una sorta di filo invisibile che tiene quasi uniti i cinque elementi sul parquet. “Occupare lo spazio” è un’espressione spesso utilizzata per definire un attacco, ma quando è una difesa ad avere spaziature e coordinazione perfetta, anche il miglior attacco del mondo si arena.

A tenere il filo di questo sistema così complicato è sì un affiatamento di squadra sublime, ma soprattutto un big-man capace di comandare la difesa quasi come uno stopper calcistico, di ancorarne la base e dettare la posizione di tutti i suoi elementi. Il lavoro di Mitchell Watt in quell’area verniciata è stato un capolavoro tattico capace di commuovere anche il più difensivista degli allenatori: mai in ritardo, mai fuori posizione, sempre pronto a rendere quell’area impenetrabile. Poi ci sarebbero anche punti, rimbalzi (16+10 in semifinale, 17+10 in finale) e mille altre sfaccettature del gioco offensivo, ma allora servirebbe un altro gigabyte di spazio per rendere il tutto nella sua giusta grandezza.

scritto da Daniele Fantini