Final Eight Coppa Italia • Day 4, la finale: AX Armani Exchange Milano-Carpegna Prosciutto Pesaro 87-59

Domenica 14 febbraio 2021 • Mediolanum Forum di Assago (MI)

L’anno scorso, di questi tempi, si chiudevano le Final Eight di Pesaro, quelle che avevo definito come “meglio vissute e più apprezzate della carriera”. Pochi giorni dopo, lo sport avrebbe chiuso, restando a lungo nel limbo. Anzi, per non dire restandoci ancora, perché, quelle di quest’anno, sono state Final Eight che ho vissuto da privilegiato, assieme a un altro paio di centinaia di eletti e fortunati cui è stata data la possibilità di godere della kermesse più importante del basket italiano dal vivo.

Oggi è stato giorno di finale, quello che aspetti, fremendo, dal mercoledì, perché le Final Eight sono tanto affascinanti quanto massacranti dal punto di vista lavorativo e professionale. Ma è anche quello che, una volta sollevata la Coppa, stappato la champagne e caduto l’ultimo nastro colorato dal soffitto, ti lascia dentro una strana sensazione agrodolce di soddisfazione mista a vuoto. Sei contento che sia tutto finito ma, in realtà, una voce sul fondo della coscienza reclama per qualcos’altro in più.

Finiscono qui le mie Final Eight di Coppa Italia 2021 on-site per Eurosport. In questo periodo scellerato sono stato privilegiato per aver potuto comunque seguire cinque giorni di grande basket e fortunato per aver lavorato con un grande collega e amico come Davide Fumagalli.

La partita, in sé, è stata quella che è stata. Se l’avete vista, la saprete descrivere probabilmente anche meglio di me. Se avete letto soltanto il punteggio finale o i parziali dei quarti, vi sarete comunque fatti un’idea piuttosto chiara, e credo aderente alla realtà. Probabilmente ho una strana tendenza nel sottovalutare Milano, me ne sono reso conto in questi giorno parlando con colleghi e appassionati che non ho visto per un anno. A loro, l’Olimpia fa un effetto che io credo di aver già vissuto e, in un certo senso, metabolizzato, essendo stata l’unica squadra che, causa covid, ho potuto seguire dal vivo finora in stagione. Capisco che il loro impatto delle prime volte dal vivo possa essere differente dal mio. Quasi spiazzante. E che quel sistema difensivo che ha soffocato, una ad una, tutte le avversarie, da Reggio Emilia a Pesaro passando per Venezia, scoglio più duro, per me non sia più una meraviglia per gli occhi, ma la normale amministrazione. In queste tre partite di Coppa Italia ho visto l’Olimpia difendere sempre come nelle grandi serate di Eurolega, dal minuto 0 al minuto 40. E, a metà febbraio, la considero ormai una cosa normale. Lo stupore divampa invece nelle situazioni contrarie, quando, in certi momenti del campionato, si nota una fisiologica differenza di focus e intensità rispetto agli impegni di coppa.

Memore di quanto visto proprio in campionato un mese e mezzo fa, in quella partita che l’Olimpia vinse rimontando dal -13 con finale in volata, mi aspettavo una finale più complessa, più combattuta, illuso anche dal fatto che Pesaro si potesse presentare all’appuntamento con enorme entusiasmo, spinta emotiva e, soprattutto, con un piano-partita già rodato ed efficace, come dimostrato in quel successo sfiorato al Forum. Inutile dire che di quella partita non ho rivisto niente. Ma proprio niente. Come se non fosse mai esistita. Ma, evidentemente, forse sbaglio io. Perché questa versione dell’Olimpia, anche col 6+6 e senza tutti gli effettivi, è, in questo momento, ingiocabile per qualsiasi avversaria del nostro campionato. Non soltanto per la povera Reggiana, arrivata al Forum naufragante in un mare di problemi e tornata a casa con l’acqua ancor più alla gola, o per l’eroica Pesaro, ma anche per Venezia, la squadra che, nel recente passato, è riuscita a metterla in difficoltà più di tutte ma che in semifinale si è sgretolata in maniera quasi disarmante.

Kyle Hines in lunetta nella finale di Coppa Italia tra AX Armani Exchange Milano e Carpegna Prosciutto Pesaro.

Gigi Datome si è messo in tasca il premio di MVP. Sono contento per lui, è il giusto riconoscimento per il suo momento e per la stagione che sta giocando. In questa quattro-giorni è stato letale in tutte le partite. Ogni volta in cui si è alzato dalla panchina, ha svoltato l’inerzia, giocando da 4 tattico difensivo e allargando il campo come una guardia, infallibile ogni volta in cui è stato pescato in angolo.

Sergio Rodriguez potrebbe essere stato un degno co-MVP, perché quei 26 assist smazzati (9, 9, 8) uniti ai 22 punti con cui ha affondato la Reyer in una partita totale, sono il segno di un campione che, anziché iniziare a imboccare l’inevitabile viale del tramonto, sta risorgendo con la stessa energia, vitalità e fame di vittorie di dieci anni fa. Anche oggi, al suo ingresso, ha cambiato tutto, dando l’impressione, in ogni singola azione, di poter fare qualsiasi cosa con la palla in mano, che sia un tiro, un cross-over, un’accelerazione dal palleggio o uno scarico tracciante per armare un compagno sul lato debole. Padrone totale del campo e del gioco.

Ed è impossibile chiudere senza citare Kyle Hines. In queste Final Eight ha dovuto fare e affrontare di tutto: avversari grossi, fisici e tecnici come Mitchell Watt e Tyler Cain, ma anche quintetti leggeri, con lunghi tiratori abili nel pop o esterni camuffati da lunghi come Julyan Stone. Con, in aggiunta, il compito di contenere tre dei playmaker più razzenti del nostro campionato, da Brandon Taylor a Wes Clark e Justin Robinson, semplicemente immarcabile nelle prime due gare. Lui ha fatto tutto, si è adattato a tutto, cambiando pelle ogni cinque minuti e, per gradire, spaziando anche da play-centro, un ruolo che ormai sembra perfettamente ritagliato sulle caratteristiche di questa squadra per la facilità con cui permette di iniziare poi l’azione in maniera molto pericolosa con un pick’n’roll da hand-off. E qui, la differenza tra un campione e il resto emerge in maniera netta.

Un ultimo accorgimento, però, è necessario. Hines non trasforma una difesa da solo. Hines sublima il livello di una difesa già forte, se non ottima, in partenza, perché al suo fianco ha giocatori settati sulla sua stessa linea di pensiero: Shavon Shields in primis, Zach LeDay come suo “gemellino” e, attenzione, Malcolm Delaney. Se in questo periodo vi state concentrando su quello che fa in attacco e vi ritrovate un po’ confusi, beh, credo che allora non abbiate ben compreso la dinamica che si sta sviluppando tra lui e Rodriguez, perché una gerarchia tra due personalità così forti era normale che, prima o poi, dovesse essere decisa. In questo momento, Delaney è calato nel ruolo di specialista difensivo, in particolar modo sul pallone. So che sembra strano, perché è l’esatto contrario di quello che faceva a Barcellona (e non facile da accettare da un certo tipo di ego), ma in realtà credo sia il modo migliore per far convivere entrambi nel sistema. Delaney setta il tono difensivo, prendendo in consegna l’esterno più pericoloso (oggi, ad esempio, ha annullato Justin Robinson), e lascia poi modo a Rodriguez di essere sfornato dalla panchina in dosi concentrate e violentissime, da perfetto spacca-partite. Perché al Chacho, con la palla in mano, potete chiedere di tutto, ma se la palla ce l’ha il suo avversario, mh…

scritto da Daniele Fantini