Il simbolo del basket: perché nessuno potrà mai essere come Michael Jordan

Al momento in cui scriviamo (2020), sono passati ormai 17 anni da quando Michael Jordan ha ufficialmente chiuso la carriera da giocatore. Diciassette. Per il fluire del tempo cestistico, è un’eternità. Pensate a quanto sia cambiato il gioco dal 2003 a oggi. Eppure, Michael Jordan è ancora il basket per eccellenza, quanto di più attuale possa esserci.

Il destino ci ha portato via, in una tremenda serata di fine gennaio, Kobe Bryant. Come struttura fisica, tecnica e caratteriale, Kobe è stato probabilmente la cosa che più si è avvicinata a Jordan nell’ultimo ventennio, la superstar che ha cercato di emularlo nella maniera più marcata possibile, ma che non è mai riuscita a superarlo o eguagliarlo, e non soltanto perché gli è mancato un titolo per raggiungere il palmares dell’ex-stella dei Bulls.

E lo stesso si potrebbe dire, a maggior ragione, delle altre superstar dei giorni nostri, giocatori che dividono, con tanti estimatori quanti detrattori (da LeBron James a James Harden), che non hanno la stessa carica empatica (da Kawhi Leonard a Kevin Durant) o che, per quanto super-atleti (Giannis Antetokounmpo), non hanno la sua stessa completezza tecnica, quell’insieme armonioso che rendeva il suo basket elegante prima che tremendamente efficace. Michael Jordan era qualcosa di diverso, qualcosa che possedeva o possiede ancora un’aura di sacralità. Jordan era divino.

La superstar che è diventata un brand: Jordan è il simbolo del basket

Jordan è stato la prima superstar a livello mondiale a trasformarsi in un brand, nell’ambasciatore per eccellenza di uno sport (la pallacanestro), fino a quel momento confinata all’interno degli Stati Uniti, e vissuta nel resto del globo soltanto attraverso fotografie, racconti, radiocronache. Insomma, qualcosa di sognato, idealizzato, ma lontano dall’essere concreto. Con le Olimpiadi di Barcellona ’92 e lo sbarco del Dream Team in Europa, tutto il mondo è potuto entrare in contatto con i campioni più dominanti della NBA, e Jordan, più di tutti, ha avuto quell’aura, quel carisma, quella capacità innata di trasportare la pallacanestro americana fuori dai confini degli States e di annunciare a tutto il mondo: “Eccoci, noi siamo questi qui. Il basket vero è questa cosa qui”.

Jordan ha provocato un cataclisma a livello culturale, un terremoto che ha rotto (in positivo, s’intende) con il passato, qualcosa che ha trasmesso con una velocità e una forza dirompente un modello di sport, di gioco, di comportamento completamente nuovo. Le grandi stelle della NBA erano un qualcosa di mitico, che finalmente, dopo decenni di splendido isolamento in cui erano state rimpiazzate dai ragazzi collegiali, si mostravano al pubblico di tutto il mondo nel loro pieno e totale splendore. Jordan è stato l’ambasciatore principe, un marchio abbiamo detto, un brand. E non a caso, lui stesso si è trasformato in un brand.

Pensateci. È forse l’unico campione che ancora oggi non ha bisogno di un nome. Bastano soltanto le sue iniziali: MJ. O, meglio ancora, l’immagine stilizzata di un omino che salta, allungandosi per una schiacciata. Jordan è diventato un simbolo, un’immagine, un marchio. Quello della pallacanestro.

scritto da Daniele Fantini