Pierluigi Marzorati racconta i suoi derby Cantù-Varese: “Partite sentitissime contro un’avversaria fortissima: che duelli con Ossola”

Pierluigi Marzorati è esattamente come me lo ricordavo. Un tipo alla buona, istrionico, ma nel contempo anche acuto e riflessivo. Parlare con lui a così tanti anni di distanza dal suo momento di massimo splendore fa davvero capire quanto sia cambiata la concezione dello sport nelle ultime due-tre decadi. Ai tempi del Pierlo si viveva probabilmente un basket più semplice, più genuino e più passionale, sia per il coinvolgimento dei giocatori stessi nella propria squadra, sia per le emozioni che trasmettevano al pubblico nel contatto quotidiano. Insomma, non credo che, al giorno d’oggi, un giocatore possa andare al bar sottocasa per ascoltare le chiacchiere dei tifosi prima del derby.

Com’era l’atmosfera del derby Cantù-Varese ai tuoi tempi? Noti differenze rispetto a oggi?

“Una volta c’era un maggior coinvolgimento del pubblico, anche attraverso i giocatori: dei 10 che erano a roster, ben 9 erano italiani più un solo straniero. Chiaramente si viveva la partita durante tutta la settimana. Si sentiva che era un match speciale per il modo in cui veniva affrontata la preparazione, per l’incremento delle presenze dei tifosi ad assistere agli allenamenti, per le chiacchiere che si facevano al bar. Erano partite molto più sentite da parte del pubblico, e di conseguenza anche da noi”.

Gli avversari più ostici?

“Nella Varese di quei tempi, sicuramente Aldo Ossola. Ma anche Dodo Rusconi e Charlie Yelverton erano due ossi duri. Ma, soprattutto, era la squadra nel suo complesso che era molto forte, non a caso veniva soprannominata la ‘valanga gialloblù'”.

Che differenza c’era nell’affrontare i derby con Milano e con Varese?

“Con Milano sentivamo un po’ di sudditanza nei confronti della città e del capoluogo di Regione. Milano è sempre stata un punto di riferimento importante per la pallacanestro italiana, e la squadra si è poi molto rinforzata nel corso di quegli anni, soprattutto quando Dino Meneghin ha lasciato Varese. Quelle con l’Olimpia sono state partite sempre molto importanti, ma con Varese era il derby tra le due squadre provinciali, e credo che fosse più sentito tra i tifosi”.

Raccontaci un po’ il famoso “effetto Pianella”…

“Beh, c’è da dire che il Pianella non era un palazzo dello sport. Il Pianella era un capannone che presentava delle situazioni al limiti del regolamento, come quella di avere le tribune molto vicine al campo di gioco. Gli avversari sentivano addosso le urla dei tifosi, e credo che questo fatto condizionasse anche qualche decisione arbitrale”.

E a Varese, com’era l’atmosfera?

“Personalmente, non ho mai avuto grossi problemi con il pubblico di Varese, si è sempre potuto giocare in maniera molto agonistica in campo. Ovviamente il tifo si sentiva, ma essendo un palazzetto costruito come si deve, aveva anche determinate distanze tra il pubblico e il campo. L’emozione della partita era più che altro data dal fatto di pensare che si affrontava una squadra molto importante e molto forte, com’era la Varese degli anni ’70-’80”.

Il ricordo più bello di un derby?

“La partita che ricordo con più piacere è stata quella del 1975, quando abbiamo battuto Varese e vinto lo scudetto. Ma ci sono stati tanti derby memorabili da una parte e dall’altra, perché ne abbiamo vinti tanti ma anche persi altrettanti, a volte subendo delle brutte scoppole…”.

Quel giorno in cui sei tornato in campo nel 2006…

“Era stata un’idea del responsabile marketing della Cantù di allora. Era il 2006, il 70esimo anniversario della società, ed avendo esordito nel 1969 e smesso nel 1991, avevo praticamente giocato in quattro decenni. Così, anche giocando un minuto e mezzo/due minuti, sarebbe stata la mia quinta decade di attività, un record da Guinness. Avevo preso quella partita seriamente, mi ero anche allenato, però, entrare nel palazzetto dopo 15 anni è stata una cosa fuori da ogni logica. Mi sembrava davvero di essere un pesce fuor d’acqua. Però, alla fine abbiamo vinto, è stata una trovata un po’ gogliardica, ma mi sono sicuramente divertito”.

…tanto che correva voce di un possibile tesseramento per tutta la stagione…

“Ahahaha! Ma no, no! 54 anni non sono 25, è inutile dire che sembra che gli anni non passino mai. Gli anni passano eccome, ed è giusto che giochino i giovani. Noi, magari, possiamo dare un contributo diverso, di sostegno alla squadra”.

scritto da Daniele Fantini