Road to Vitoria • Day 4

Irun, 19 maggio 2019

Miranda de Ebro va presa a spicchi. Se vi inoltrate in quello giusto, resterete piacevolmente sorpresi. La città vecchia sorge sulla riva opposta rispetto al grosso delle nuove costruzioni, ai piedi del castello eretto in posizione sopraelevata per controllare l’accesso e il passaggio sul ponte delle carovane mercantili. Miranda sembra una città di artisti. Murales e graffiti colorano i muri e vi riempiono lo sguardo, rapendovi per la loro bellezza e originalità. Ci sono case trasformate in vere opere d’arte, con una facciata completamente affrescata che spesso stona con la povertà di quella opposta.

Miranda de Ebro vista dalla cima del Castillo.

Visite obbligate sono Plaza de España, con la Casa de las Cadenas, e la salita al Castillo, trasformata in giardino botanico terrazzato. Dal castello rimane soltanto il perimetro delle mura, ma se vi affacciate o arrampicate, potete godere di una bellissima vista sulla città e sulla meseta che riempie l’orizzonte. Sulla via del ritorno, spostandosi verso la parte moderna della città, è consigliabile passare per la Calle de la Estacion, lambendo il Parque Antonio Machado, cuore pulsante del centro: il viale sfocia nella rotonda che accoglie il simbolo della città, una gigantesca M colorata di blu, rosso e giallo dal profilo ondulato, ispirato allo scorrere delle acque del Rio Ebro. “Vivir Miranda!” è lo slogan della città.

“Vivir Miranda!”: lo slogan della città e il suo simbolo, la M colorata.

Ma ok, è tempo di ritornare a Vitoria. Particolarità della Fernando Buesa Arena è l’essere circondata da una palude, chiamata Salburua. Senza metterci la mano sul fuoco, potrebbe essere una location simile a quella della vecchia arena di New Jersey Nets, nel bel mezzo del nulla delle Meadowlands. Salburua è un’oasi verde alla periferia della città, protetta per la salvaguardia dell’ambiente naturale originario. Potete godervela passeggiando per il parco ricavato al suo esterno, con passerelle per camminare sull’acqua e varchi per infilarsi nel bosco e avvicinarvi all’acquitrino cercando, con un po’ di fortuna, di avvistare uccelli acquatici o cerbiatti.

A passeggio per l’oasi lacustre di Salburua, attorno alla Fernando Buesa Arena di Vitoria.

A metà pomeriggio ricomincia la seconda giornata delle Final Four. La prima partita, vinta in carrozza dal Real Madrid, ha poco da dire (94-75). Il Fenerbahçe, grande delusa, ha la testa altrove, nonostante l’arena sia ancora colma delle macchie gialle dei tifosi, coalizzati con i fan di Efes e Baskonia. Strane le dinamiche sociali che nascono in occasioni come queste. Come se i tifosi di Inter e Milan facessero il tifo assieme. O, ancora peggio, quelli di Milano e Cantù.

La finale: CSKA Mosca-Anadolu Efes 91-83. Ok, lo ammetto, ho tifato Efes, sperando che quella favola che li ha visti arrivare a giocarsi il titolo ripartendo dall’ultimo posto della scorsa stagione (in un torneo dove, a differenza dell’NBA, non esiste il draft), potesse concretizzarsi per davvero. L’Efes ha un qualcosa che mi ha incuriosito per tutta la stagione: un bel gioco, offensivo, brillante, moderno, incentrato sul penetra-e-scarica delle guardie, sul tiro da tre punti, su ali-stretch e due centri dinamici e difensivi come Dunston e Pleiss. Una squadra ricostuita da capo, ma studiata in maniera scientifica, da basketball-analytics, con tutti i tasselli al posto giusto. Non è stata la serata (purtroppo) di Vasilije Micic, ma nemmeno quella di Shane Larkin, straordinario in semfinale, ma visto mostrare troppo spesso la faccia oscura di se stesso, all’interno di una partita talmente ondivaga da spiegare alla perfezione il motivo per cui non sia riuscito a restare dall’altra parte dell’Oceano.

Il CSKA Mosca è campione d’Europa per l’ottava volta nella storia.

D’altra parte, è giusto, però, rendere onore ai campioni. Il CSKA è diventato lo specchio perfetto del suo coach, Dimitris Itoudis, il delfino di Zeljko Obradovic, al momento l’uomo più pronto a raccogliere l’eredità dell’allenatore più vincente della storia dell’Eurolega. Come Itoudis, il CSKA non regala sorrisi, ma è una squadra con carattere, durezza, mentalità e intensità difensiva, i tratti che meglio definiscono i suoi leader occulti, quelli che lavorano a margine delle due star in regia, Nando de Colo e Sergio Rodriguez: da Kyle Hines, capitano d’altri tempi, a Daniel Hackett, mastino del perimetro, fino a Will Clyburn a Cory Higgins, due made in USA ormai perfettamente europeizzati, a la JR Holden e Trajan Langdon dei tempi.

Felicissimo per Clyburn, eletto MVP delle Final Four, giocatore che ha mostrato miglioramenti pazzeschi dal suo debutto europeo con il Darussafaka: è quel tipo di all-around player per cui impazzisco, capace di giocare indistintamente quattro ruoli e di fare qualsiasi cosa su entrambe le metà campo, forte di un fisico asciutto, atletico e longilineo che sembra quasi scolpito ad arte per questo gioco.

Adios, Vitoria! Alla prossima!

scritto da Daniele Fantini