Sofoklis Schortsanitis, il “Baby Shaq” coi piedi da orso ballerino che conquistò l’Europa

Nell’estate del 2003, quando sbarcò a Cantù per la sua unica esperienza con la pallacanestro italiana, i grandi appassionati di NBA sapevano di avere tra le mani un giocatore sì ancora acerbo e immaturo, ma con un potenziale da far rabbridividire. In quegli stessi giorni, infatti, Sofoklis Schortsanitis era stato scelto al draft con la numero 34, una delle primissime chiamate del secondo giro, molto alta in un periodo in cui la NBA non aveva ancora l’apertura attuale verso i prospetti d’oltreoceano senza esperienza collegiale o in club di prestigio (per intenderci, due anni prima, Tony Parker fu 28a scelta, e Manu Ginobili 57a quattro anni prima). Eppure Schortsanitis, che fino a quel momento aveva militato in Grecia tra le file dell’Iraklis, aveva già un soprannome, anzi due, che lo paragonavano a quello che, in quegli anni, era il centro più dominante della Lega: “Big Sofo” “Baby Shaq”, in onore del leggendario Shaquille O’Neal. Già, perché con quei suoi 100 e X chilogrammi di peso (scegliete pure voi il numero che più vi aggrada tra i 40 e gli 80) per 208 cm di altezza, Schortsanitis era un concentrato di potenza inscatolato in un corpo con piedi rapidissimi, da ballerino, e una tecnica sorprendente. Proprio come Shaq, amava prendere posizione profonda in post-basso e da lì, a dispetto della massa, massacrare i difensori diretti con movimenti sul piede perno inimmaginabili per un giocatore di quella stazza enorme, quasi debordante nei suoi periodi di scarsa forma fisica (e, suo malgrado, ce ne sono stati molti lungo tutta la sua carriera).

Dalle pizze di Cantù alla crescita con l’Olympiacos

Nonostante la grande attenzione di pubblico e mediatica, l’esperienza canturina di Baby Shaq non fu memorabile, eccezion fatta per quell’episodio, raccontato ancora oggi su molti social media, in cui, dopo un allenamento, ordinò 16 pizze divorandosene sul posto 12 e portandosi a casa le restanti quattro per uno spuntino notturno. Il controllo del peso, che lo registrava a 181 kg nella sua ultima stagione, è sempre stato il suo nemico più duro, più insormontabile di qualsiasi avversario diretto in area, e anche il motivo principale per cui quei piedi da orso ballerino non sono mai riusciti a esprimere il loro reale potenziale, un tesoro segreto ormai destinato a restare sconosciuto per sempre.

Dopo aver pennellato 6.4 punti di media a partita nella sua unica stagione in Brianza, il malinconico Big Sofo tornò in patria, riciclandosi con l’Aris Salonicco e ritrovando lo smalto delle sue prime stagione greche. Quel giocatore dalle caratteristiche così particolari stuzzicò l’appetito dell’Olympiacos dei fratelli Angelopoulos, in quel periodo decisi a bruciare milioni di euro per costruire una squadra in grado di distruggere l’atavica rivalità con il Panathinaikos e dominare l’Eurolega con l’apertura di una dinastia leggendaria al Pireo. Erano gli anni in cui l’Oly aveva strappato Josh Childress agli Atlanta Hawks, battendo a suon di quattrini la concorrenza di squadre NBA per un giocatore free-agent, e in cui si leggeva, ogni settimana, di nuovi interessamenti per stelle o stelline d’oltreoceano, comprese offerte da capogiro per Kobe Bryant. Quell’Olympiacos raggiunse le Final Four nel 2009 e disputò la finale del 2010 rimediando una sonora batosta dal Barcellona (86-68).

Il Maccabi Tel Aviv di David Blatt: il suo ambiente ideale

Di fianco a mostri sacri della pallacanestro europea come Ioannis Bourousis, Linas Kleiza e Nikola Vujicic, quell’Olympiacos non era il posto giusto perché Big Sofo potesse esprimere il suo enorme potenziale in quei (pochi) minuti che i suoi incalcolabili chilogrammi gli permettevano di restare sul parquet (mai oltre i 20′ in tutta la carriera). Aveva bisogno di una situazione differente, in cui potesse essere il reale punto di riferimento della squadra in vernice. E la trovò l’anno successivo in Israele, con il Maccabi Tel Aviv di David Blatt. In quel periodo, Blatt si stava imponendo nel panorama europeo come uno degli allenatori più innovativi e moderni, deciso a plasmare il suo Maccabi con un’impronta spiccatamente attuale. Era una squadra che iniziava a impostare un gioco con quattro elementi perimetrali e un solo centro di presenza in area, sfruttando il tiro da tre punti e le situazioni di debolezza difensiva dettate dalla necessità di raddoppiare Schortsanitis se isolato in post-basso.

Big Sofo visse, non a caso, la sua miglior stagione della carriera: in poco più di 19 minuti di media a partita, realizzò 12.0 punti con 4.1 rimbalzi, cifre che gli valsero l’inserimento nel miglior quintetto dell’anno assieme a Dimitris Diamantidis, Juan Carlos Navarro, Fernando San Emeterio e Mike Batiste, centro del Panathinaikos. Evidentemente, Eurolega non si era ancora resa conto del cambiamento epocale che avrebbe presto cancellato la figura del doppio lungo di peso anche nel basket tradizionalista e conservatore del Vecchio Continente.

La conquista dell’Eurolega e il declino

In quella stagione, il Maccabi raggiunse le finali di Eurolega perdendo 78-70 contro il Pantathinaikos Atene, matador anche l’anno successivo, ma nei quarti di finale. Eppure, quegli incroci con Schortsanitis convinsero lo stesso Pana a dargli una possibilità e, così facendo, permettergli di coronare il sogno di una vita: vestire la maglia biancoverde con il trifoglio. Suo malgrado, l’esperienza lungamente attesa si rivelò disastrosa, anche e soprattutto a causa di quel peso spropositato che stava progressivamente sgretolandogli le ginocchia. Salutata Atene a fine stagione, Baby Shaq aveva bisogno di tornare in un posto a lui congeniale: quel Maccabi Tel Aviv che, nel frattempo, aveva preso definitivamente le sembianze di una squadra moderna.

David Blatt aveva costruito un sistema a quattro angoli (molto simile a quello di Ergin Ataman con l’Anadolu Efes) con esterni in grado di attaccare dal palleggio e tirare sugli scarichi e un solo big-man interno con doppia caratteristica: Schortsantis iniziava le partite dando profondità e peso all’attacco, ma erano poi Alex Tyus Shawn James a sobbarcarsi la quantità maggiore di minuti, per dare a quegli stessi esterni maggiori opzioni sul pick’n’roll grazie al loro atletismo verticalità. Era un Maccabi che poteva giocare con un assetto leggero combinando Ricky Hickman, Tyrese Rice, Joe Ingles e Devin Smith, tutti giocatori creativi e pericolosi (se non letali) sul perimetro. Il quintale e mezzo abbondante di Big Sofo veniva centellinato all’inizio dei quarti (giocava 14 minuti in media anche per la tendenza a commettere un numero abnorme di falli) in dosi di 4 minuti, in cui veniva costantemente cercato per costringere le difese a collassare in area e aprire spazi attaccabili sui ribaltamenti. Schortanitis ne beneficiò segnando quasi 10 punti a partita in meno di 15′ di gioco, ma l’intero sistema fiorì, conquistando la qualificazione alle Final Four di Milano con l’eliminazione della stessa Olimpia di Luca Banchi ai playoff e regolando poi CSKA Mosca e Real Madrid per sollevare il titolo, il primo e unico nella carriera di Baby Shaq.

Dopo aver vinto quella coppa, la carriera di Big Sofo, ormai curvata verso la parabola discendente nonostante i soli 29 anni di età per quel peso corporeo sempre più ingestibile, finì col disperdersi nei meandri del basket greco, azzoppata in maniera ancor più crudele dalla rottura del tendine d’Achille sofferta nel 2016. Oggi, a 35 anni, Schortsanitis ha annunciato definitivamente il ritiro, facendo scorrere una piccola lacrima sul viso dei tanti appassionati che hanno ammirato a lungo quel suo corpaccione ballare in maniera sinuosa e impensabile su due piedi dolci come lo zucchero. Ciao Big Sofo, ci mancherai!

scritto da Daniele Fantini