Tra Milano e Stella Rossa Belgrado: Charles Jenkins, il mastino che conquista il cuore dei tifosi

Nonostante abbia giocato una sola stagione con la maglia dell’Olimpia Milano restando, tra l’altro, fuori a lungo nei playoff per turnover, Charles Jenkins è ancora una figura di riferimento nel cuore dei tifosi. Lo “zio di Buccinasco”, com’è poi stato soprannominato per una gag che spiega molto bene il suo carattere aperto e istrionico, incarnava gli ideali tratti dalla tradizione del periodo d’oro degli anni ’80: un giocatore blue-collar, arcigno, tosto, umile, grande difensore e sempre pronto a sacrificarsi in ogni azione, ogni sera. Non a caso, è poi diventato un pilastro della Stella Rossa Belgrado, idolo indiscusso della tifoseria di una squadra che ha sempre fatto dell’intensità, della difesa, del cuore e del carattere i suoi punti di forza principali.

Sei alla terza esperienza con la Stella Rossa: che cosa rende questo legame con il club così forte?

“Ho iniziato a giocare con la Stella Rossa nel 2013, con coach Dejan Radonjic. È stata una figura molto importante per la mia crescita come giocatore qui in Europa, ho sviluppato un legame molto forte con lui e la società. Quando lasciai Belgrado per Milano, mi disse che in quella squadra ci sarebbe sempre stato un posto libero per un giocatore con me, se mai avessi deciso di tornare sui miei passi. E così è stato, per due volte”.

Hai giocato in Serbia, Italia e Russia: come descriveresti il pubblico di Belgrado, uno dei più caldi d’Europa? Si percepisce la differenza di passione che hanno i serbi per il basket?

“Sì, giocare alla Pionir Arena è bellissimo. I tifosi della Stella Rossa cantano tutto il tempo, tifano tantissimo e sono molto vicini al campo, quindi si sentono ancora di più. A Milano ho un bel ricordo dei fan, sono sempre venuti in molti al palazzo per sostenerci, ma hanno un atteggiamento differente, sono più distaccati, più silenziosi, cantano poco. E anche in Russia la situazione è simile a quella che ho sperimentato al Forum”.

Sei sempre stato un grande difensore, ma credi che oggi la difesa sia un po’ sottovalutata in un basket molto più concentrato sugli attacchi?

“Forse sì, ma dipende da chi guarda la partita. I tifosi vengono al palazzo e pagano il biglietto per vedere segnare tanti canestri, non per vedere attacchi continuamente fermati. Ma da un punto di vista dell’equilibrio di una squadra e delle richieste dei coach, la fase difensiva è ancora il fattore principale”.

Chi è al giorno d’oggi la superstar di Eurolega più difficile da marcare?

“Bella domanda, ci sono tantissimi giocatori molto forti in attacco. Posso dirti quello più ostico per me, che è Jaycee Carroll. Di solito, riesco a contenere meglio i giocatori cui piace tenere la palla in mano, perché riesco a star loro davanti e a mettere pressione sul palleggio. Ma Carroll è un giocatore che svolge la gran parte del lavoro lontano dalla palla, si muove di continuo, ed è bravissimo nel prendere i blocchi e crearsi lo spazio per ricevere e tirare in uscita. Inseguirlo è un incubo. Poi direi Nick Calathes, un giocatore che sa fare tutto con la palla in mano: ha una mente eccelsa, ha sempre tutto sotto controllo, ed è tanto bravo nel passare quando nel segnare. Carroll e Calathes sono i più difficili, ma anche Mike James, Shane Larkin e Vassilis Spanoulis sono brutti clienti…”.

Il ricordo più bello con la maglia dell’Olimpia Milano?

“Quell’anno abbiamo vinto lo scudetto e la Coppa Italia, ho dei ricordi positivi. Iniziare vincendo la Coppa è stato molto importante, anche perché Ale Gentile, che in quella squadra copriva un ruolo primario, era infortunato. Però il gruppo era solido. Andrea Cinciarini aveva giocato un’ottima stagione, così come Kruno Simon e Oliver Lafayette. Quella vittoria su Avellino in Coppa è stato il momento più bello, perché l’ho alzata di fronte ai miei genitori che erano venuti in Italia per vedermi”.

Raccontaci ancora di quell’aneddoto dello “zio di Buccinasco”…

“Davvero i tifosi di Milano se la ricordano ancora? Era stata una gag con il nostro magazziniere, Alessandro Barenghi, che è di Buccinasco, e con Andrea Amato, che a quei tempi era il giovane della squadra e chiamava tutti “zio, zio”. Ma in realtà c’è un aneddoto ancora più divertente di quella stagione: stavo imparando le parole-base dell’italiano, come “Ciao, come stai? Tutto bene”. Un giorno incontro una ragazza in ascensore che mi saluta e mi chiede: “Come stai?”. Io rispondo: “Sto una fragola”. Lei mi guarda con una faccia stranissima e ho capito che c’era qualcosa che non andava nella mia risposta. Quando ho controllato su Google Translate che cosa avessi detto e ho letto che fragola è la nostra “strawberry”, ho capito che mi ero confuso di brutto con le nuove parole che stavo cercando di imparare…”.

scritto da Daniele Fantini