Fenerbahçe Beko Istanbul-AX Armani Exchange Milano 71-79

Martedì 15 dicembre 2020

In un modo normale, l’Ulker Sports and Event Hall sarebbe stata brulicante di tifosi. Più di 10.000, assiepati, rumorosi, chiassosi, tutti colorati di giallo-blu come in un quadro di Picasso. Se li avete visti dal vivo, converrete con me che i tifosi del Fenerbahçe sono mitici, meravigliosi nella loro purezza. Nel mondo di oggi, quella marea giallo-blu è stata costretta a lasciare il posto a uno striscione bianconero, omaggio a una leggenda del basket europeo che Istanbul non dimenticherà mai: Gigi Datome. Quel Gigi con cui il Fenerbahçe, trasformato in una macchina di pallacanestro meravigliosa dalla mente eccelsa di Zeljko Obradovic, ha vinto tutto, compresa l’Eurolega del 2017, l’unica, finora, finita sulla bacheca di una società turca. Eppure, anche in un palazzo desolatamente deserto, contro un Fenerbahçe che di Obrdadovic non ha più neanche la ruota in riscaldamento, senza Jan Vesely e con un Nando De Colo in campo quasi per onor di firma, vincere a Istanbul dà sempre una sensazione speciale, magnifica, quasi paradisiaca.

Certo, questo Fenerbahçe è deprimente se confrontato a quella squadra meravigliosa con cui Obradovic ha fatto scuola, specialmente difensiva, nell’ultimo quinquennio. Se fossimo in NBA, lo chiameremmo periodo di rebuilding, di ricostruzione, anche se molto sui generis. Perché tanti veterani sono restati, affiancati da nuove leve che nel vecchio Fener avrebbero, forse, fatto i quindicesimi. Quelli in borghese, in tribuna. In realtà, dovrebbe essere tutto il contrario. Addio alla Vecchia Guardia, e porte spalancate ai rookie con un futuro brillante davanti. Ma, in questo mondo capovolto, ormai funziona così. E cavar sangue dalle rape, al momento, non mi sembra il colpo nascosto nel cilindro di Kokoskov.

La palla a due tra Ahmet Duverioglu e Kaleb Tarczewski che dà inizio alla partita tra Fenerbahçe Beko Istanbul e AX Armani Exchange Milano.

La partita, in sé, credo sia durata poco meno di un quarto, giusto il tempo perché Nando De Colo, al momento l’unico giocatore degno di indossare quella canotta giallo-blu, finisse con l’esaurire quelle batterie molto scariche dopo un lungo stop per infortunio. Spentosi lui, si è spento tutto. Sono mancati i suoi colpi di genio, le sue accelerazioni dal palleggio ma, soprattutto, quella qualità e quell’esperienza che gli permettono, anche su una gamba sola, di avere il pieno controllo tattico della partita. Una qualità innata e poi affinata attraverso una lunga maturazione in tanti contesti vincenti. Perché, per molto tempo, avere Nando De Colo nel proprio roster equivaleva a essere una seria contender.

Il resto, con rispetto, è stato un brutto sfregio al ricordo di quel quinquennio forse irripetibile di Obradovic. Specialmente da quei giocatori scelti per rivitalizzare un ambiente depresso, ma che, finora, stanno avendo l’esatto effetto contrario. Vedi Edgaras Ulanovas, ancora imprigionato nella crisalide di “quel che potrebbe essere ma che non è” a 28 anni di età. Vedi Lorenzo Brown, che, di quel periodo dominante alla Stella Rossa nella scorsa stagione, ha mantenuto soltanto il nome scritto sul retro della maglia. E sospiro, di sollievo, pensando che quello stesso Brown avrebbe potuto seriamente firmare con Milano qualche mese fa, quando Shelvin Mack era ormai ufficialmente diventato una zavorra da lanciare giù dalla mongolfiera.

Parlando in maniera sincera, sì, pensavo che Milano potesse vincere. Anche se non con questa facilità. Perché il +8 finale è parecchio striminzito rispetto a quel +20 toccato alla fine del terzo quarto, probabilmente il vero divario esistente, al momento, tra queste due squadre (con le situazioni dimesse di Vesely e De Colo, sia ben chiaro). Gigi Datome ha giocato quella che ritengo essere la sua miglior partita dell’anno in Eurolega, ma non poteva essere altrimenti, come ho già detto a lungo qui, in un pezzo interamente dedicato a lui e alla sua serata.

Sergio Rodriguez dopo aver segnato un gran canestro contro Bobby Dixon.

Mi piacerebbe soffermarmi, invece, su un altro paio di personaggi in particolare: Zach LeDay e Sergio Rodriguez. LeDay è arrivato a Milano di soppiatto, con un’eco relativamente scarsa se non assente ma, soprattutto, con una diffidenza palpabile e serpeggiante tra il pubblico. Dopo quattro mesi, mi rendo conto, con sollievo, che la situazione è cambiata o, quantomeno, sta virando per il verso giusto. Perché un giocatore così versatile e leonino, capace di occupare entrambi gli spot nella front-line con egual efficacia, è un lusso. Anche se non ha un nome, non ha un pedigree, non ha un passato glorioso, e, per questo motivo, può risultare inizialmente insipido alle orecchie degli appassionati. Ma vi dico una cosa: se Sarunas Jasikevicius lo ha scelto come perno titolare del suo Zalgiris, un motivo ci sarà stato. E ve ne dico un’altra: Jasikevicius è uno che sbaglia molto, molto, ma molto di rado.

Il ritorno del Chacho, invece, mi ha entusiasmato. Rodriguez è un giocatore che ho imparato a inquadrare analizzandone, prima di ogni altra cosa, il linguaggio del corpo. Capisco dai suoi occhi, dal suo sguardo e dalle sue movenze se è in serata, se è in partita, se è pienamente concentrato sul pezzo. Chiaro, dal vivo è molto più semplice, ma, anche attraverso la lente del televisore, contro il Fenerbahçe ho percepito quelle stesse sensazioni ed emozioni positive, di un giocatore con una voglia debordante di essere nuovamente in campo da protagonista. Fateci caso. A come muove la testa, a come fa guizzare gli occhi, a come balla sulle punte dei piedi scandagliando ogni minimo dettaglio dell’azione e del suo avversario diretto, pronto a inquadrare il varco giusto per scagliare una giocata di classe. Quando vedo il Chacho così, sono felice. Perché capisco che lo è anche lui. Felice di giocare, felice di giocare a basket. E questo stato d’animo, di solito, tende a fargli vincere le partite.

scritto da Daniele Fantini