Vince Carter, l’uomo che ha sconfitto la forza di gravità

“ La mia prima schiacciata? L’ho fatta a 11 anni.

Vince Carter

La schiacciata più bella, invece, di anni ne ha già compiuti venti. Tanti ne sono trascorsi da quando Vince Carter inebriò il mondo con uno show indimenticabile al Dunk Contest dell’All Star Game del 2000. Quella sera, a Oakland, Carter era l’uomo più atteso per trasferire e concretizzare sul massimo palcoscenico quei gesti spettacolari con cui avrebbe, da lì a poco, portato i Toronto Raptors alla più grande cavalcata nella post-season prima del trionfo della passata stagione. E Carter rispose con quella che, ancora oggi, viene ricordata da molti come una delle migliori esibizioni individuali della storia, capace di stravolgere per sempre l’appuntamento clou della serata delle stelle.

Vince Carter durante il Dunk Contest vinto in occasione dell’All Star Game 2000.

“ Siamo diversi gli uni dagli altri. Ognuno ha il proprio stile, fa le cose a modo suo.

Vince Carter

Carter è stata la prima superstar NBA a giocare con continuità sopra il livello del ferro, un aspetto della pallacanestro ormai comune (per non dire “di base”) al giorno d’oggi, ma totalmente rivoluzionario per un’epoca in cui si giocava un basket molto più compassato, fisico e difensivo, specialmente sulla costa orientale, che nell’ultimo ventennio ha sempre vissuto una disparità marcata a livello di talento e qualità generale rispetto alla Western Conference. Carter ha costruito la parte iniziale (e più brillante) della propria carriera su un mix di qualità fisiche, atletiche, di coordinazione ed equilibrio che anticipavano di almeno una decade il naturale sviluppo della NBA: nessuno, nella storia, aveva mai avuto la sua capacità di attaccare con forza e determinazione il canestro unita al coraggio di sfidare i big-men direttamente al ferro. Carter aveva un modo tutto suo per marcare il proprio territorio nella Lega: mettere palla per terra e schiacciare in testa alle migliori difese della NBA, in un’epoca in cui si utilizzavano tonnellate di conclusioni dalla media distanza proprio per anticipare ed evitare le collisioni con quelle difese stesse. E parliamo di difese vere, reali, con centri enormi che non aspettavano altro che poter stritolare gli avversari in penetrazione.

La “Dunk de la Mort”: quando Vince Carter scavalcò letteralmente il centro francese Frédéric Weis durante le finale delle Olimpiadi di Sydney 2000.

“ Per descrivere Vince Carter mi ero inventato un nomignolo: metà-uomo, metà-meraviglia.

Shaquille O’Neal.

“Half-man, half-amazing” [cit. O’Neal], “Air Canada”, “Vincredible”, “Visanity”. I nickname per Vince Carter ne hanno sempre evidenziato le qualità atletiche e spettacolari. Non a caso, sono essenzialmente due le istantanee con cui Carter è rimasto impresso nell’immaginario collettivo. Quel “It’s over, it’s over” (“È finita, è finita”), recitato dopo la schiacciata tra le gambe al Dunk Contest del 2000, e la leggendaria “Dunk de la mort”, “la schiacciata della morte” sfoderata nella partita contro la Francia durante le Olimpiadi di Sydney 2000, un gesto ai limiti del surreale che lo vede inchiodare saltando, a gambe divaricate, sulla testa di Frédéric Weis, lo statuario centro transalpino di 218 centimetri.

Ma quei gesti spettacolari sono altrettanto efficaci per trasformare i suoi Toronto Raptors da neonata squadra di basso livello a micidiale outsider nei playoff. Con Carter al comando, Toronto raggiunge la post-season per la prima volta nella storia nel 2000 (sconfitta al primo turno contro i New York Knicks) e si ripete nella stagione successiva: i Raptors si vendicano dei Knicks e, nelle semifinali di Conference, ingaggiano una battaglia sanguinosa con i Philadelphia 76ers di Allen Iverson, in una delle serie più avvincenti della storia della NBA per il confronto tra due superstar parimenti eccitanti. Ne esce una gara-7 decisa all’ultimo tiro, sbagliato proprio da Carter sulla sirena, una macchia che ne avrebbe poi segnato la carriera futura e che sarebbe poi stata “lavata” soltanto da Kawhi Leonard e da quel suo tiro fortunoso che avrebbe eliminato gli stessi Sixers in gara-7 nell’anno dell’anello.

Vince Carter in azione contro Allen Iverson durante le semifinali della Eastern Conference dei playoff 2001 fra Toronto Raptors e Philadelphia 76ers.

L’eredità di Vince Carter nel successo dei Toronto Raptors

Carter ha poi continuato a calcare i parquet per un altro ventennio, infrangendo il record di stagioni disputate in NBA (22) e diventando, a 43 anni, l’unico nella storia in grado di giocare per quattro decadi (1999-2020). Carter ha avuto la capacità di reinventare se stesso e il proprio gioco di anno in anno, abbandonando il ruolo di superstar e abbracciando progressivamente quelli di secondo violino, sesto uomo di lusso, gregario e mentore per i più giovani nelle ultimissime stagioni. Carter ha indossato otto casacche differenti, ma, se volessimo disegnarne un ritratto a occhi chiusi, la stragrande maggioranza se lo immaginerebbe ancora e sempre in maglia viola e nera, con un enorme dinosauro rosso sul petto. Perché lì, a Toronto, è diventato un’icona mondiale: non soltanto un giocatore elettrizzante, ma anche e soprattutto un personaggio capace di far aprire il Canada, paese di hockey per eccellenza, alla pallacanestro, e di gettare le basi per quella trasformazione culturale sportiva che ha portato tanti giovani canadesi ad abbandonare il puck per la palla a spicchi. I successi sul campo e in termini di pubblico raccolti dai Toronto Raptors negli ultimi anni non sono che l’eredità lasciata da Vince Carter: l’anello del 2019 è, per certi versi, il suo anello, quello che non è mai riuscito a vincere nonostante una carriera lunghissima, unica e spettacolare nel suo genere.

scritto da Daniele Fantini