Sergio Rodriguez, “El Chacho” all’Olimpia Milano

Parlare con Sergio Rodriguez è come entrare in contatto con una persona che ha già vissuto una decina di vita diverse, talmente ampio e variegato è il suo passato tra Europa e Stati Uniti. In 15 anni di carriera, il “Chacho” ha sperimentato (quasi) tutto lo sperimentabile su un campo da basket: due Euroleghe, 6 stagioni in NBA, un oro Mondiale, un oro Europeo, un argento e un bronzo olimpico con quella Spagna capace di tenere testa al Team USA a Londra e Rio de Janeiro. Rodriguez racconta la sua vita, anzi, le sue vite, con una naturalezza e una spontaneità impressionanti, ed è normale che sia così per un ragazzo per cui il basket è, anzitutto, divertimento: diventare giocatore non è stata una scelta, ma la normale conseguenza di una passione a 360°.

Tutti ti conosciamo come “Chacho”, ma cosa significa realmente?

“In Italia c’è un problema, perché tutti mi chiamano “Ciaco”. Quando incontro qualcuno, mi chiama “Ciaco”. Ma “Chacho” significa “ragazzino”. Sono originario delle Canarie, e usiamo molto spesso le parole “muchacho” e “chacho”. Quando ero giovane, in nazionale under-13 e under-14, tutti hanno iniziato a chiamarmi “Chacho”, ed è stato il soprannome che ho tenuto per la maggior parte della carriera”.

Qualche anno fa, hai cambiato totalmente look adottando capelli e barba lunga, e sei diventato il prototipo del giocatore hipster: come mai questa scelta?

“Dopo le Olimpiadi del 2012, dove arrivammo in finale affrontando gli Stati Uniti, ho vissuto uno dei momenti più belli della mia vita, non solo dal punto di vista professionale ma anche personale con la mia ragazza, che ora è mia moglie. Eravamo in vacanza a Mykonos, in Grecia, e abbiamo visto tante persone che portavano la barba lunga. Così ho cominciato a farla crescere anche io e mi sono reso conto che stavo bene. Ora mi piaccio con la barba, è diventata il mio brand. È stato un cambiamento improvviso, ma per il momento mi sento bene così”.

Per due Olimpiadi consecutive, Londra e Rio de Janeiro, avete tenuto testa al vero Team USA, giocando punto a punto fino alla fine: c’è un po’ di rammarico per quelle sconfitte o era davvero una squadra imbattibile?

“Il basket spagnolo sta vivendo un bel periodo negli ultimi 20-25 anni. Abbiamo avuto una generazione molto forte, con un grande desiderio di giocare per la nazionale e uno spirito competitivo. Giocare quelle partite contro gli USA è stato difficile, perché sappiamo che sono i giocatori e la squadra più forte del mondo. Ma quando sei in campo a giocare, vuoi vincere contro chiunque. Sono state due partite splendide. Probabilmente non era il momento giusto per batterli, ma poterli sfidare è stato comunque qualcosa di eccezionale”.

I tuoi genitori si sono conosciuti a una partita di basket: la pallacanestro sembra averti accompagnato da sempre…

“Il basket è il mio lavoro ma è anche il mio passatempo preferito. Tutto ciò che riguarda la mia famiglia e la mia casa è collegato al basket. Anche mia moglie gioca a basket, e ho due figlie: sono ancora piccole e non so se avranno voglia di giocare. Ma ci piace seguire un po’ tutto: NBA, Eurolega, campionato spagnolo… L’anno scorso il marito di mia sorella, Pedro Llompart, ha giocato a Reggio Emilia, quindi abbiamo potuto anche avere un’impressione del basket italiano, di come funziona qui la pallacanestro”.

Quali sono stati i modelli di riferimento che ti hanno fatto appassionare e da cui hai cercato di apprendere qualcosa nel tuo processo di crescita?

“Crescendo, mi piaceva osservare giocatori che si divertivano giocando a basket. Per me è la cosa più importante: vedere che quello che facevano fosse qualcosa di naturale. Jason Williams era uno di questi. Poi Allen Iverson, Michael Jordan, e qui in Europa mi emozionavano probabilmente più di tutti Raul Lopez e Sasha Djordjevic. Sono stati i due giocatori cui mi sono ispirato di più da ragazzo. Sono tutti giocatori vincenti e che si sono divertiti giocando a basket”.

Infatti sei diventato un maestro dei passaggi immaginifici…

“Mi piace molto servire assist per i miei compagni. Preferisco fare un assist che segnare un canestro. Mi ricordo gli assist che ho servito nei momenti decisivi. Cerco sempre di godermi ogni momento in campo, lavorando e sacrificandomi per vincere: questo è ciò che conta. Perché, quando perdi, non ti diverti. Devi sempre cercare di metterti nella situazione giusta per vincere, bilanciandola con il divertimento di cui puoi godere.”

Sei nato nel giorno 12, ma hai sempre indossato numeri di maglia attorno alla tua data di nascita: 10, 11, 13 e 14. Come mai questa strana scelta?

“La prima volta che ho giocato in una squadra avevo 7-8 anni, ed era rimasto libero soltanto il numero 13. Perciò il numero 13 è stata la mia prima scelta obbligata. Ma ci sono state situazioni in cui, arrivando in una squadra nuova, il 13 fosse già occupato oppure ritirato, cosa successa a Sacramento e Philadelphia e forse anche con i Blazers. La mia prima scelta è sempre il 13, e se oggi dovessi sceglierne un altro, dopo averlo vestito per tanti anni in nazionale, sceglierei il 6. E poi forse il 10”.

Per qualche tempo, il Madison Square Garden di New York è stata la tua casa: che emozioni si provano a entrare nella Mecca del basket?

“Ogni volta che giochi nel Madison Square Garden di New York provi le sensazioni più belle possibili da vivere in un’arena. È il palazzo più famoso del mondo. Forse non sono arrivato nel momento giusto a New York, ma mi sono goduto molto quell’esperienza, me la ricorderò per sempre, anche se è stato un momento di transizione per me in NBA. È stato bello, un qualcosa che mi porterò sempre dentro, giocare “in casa” a New York.

scritto da Daniele Fantini